L’ingenuità del sacro. Sulla Via Crucis di Sergio Marcelli (1958)nella chiesa dei Sacri Cuori di Gesù e Maria a Roma
Le stazioni della Via Crucis dipinte da Sergio Marcelli alla fine degli anni Cinquanta per la parrocchiale romana dei Sacri Cuori di Gesù e Maria nel quartiere Trieste, consacrata nel 1957, sono forse opere d’arte? Stando ad un’ottica convenzionale, non affettano originalità formale, né pittorico gusto sensuoso o rilevante spessore intellettuale d’impianto. Le tele quadre sfiorano, come isolati grumi di colore, gli altissimi pilastri in cemento armato dell’aula a croce latina, astratta struttura cromaticamente neutra, col tetto a vista di una mendicante chiesa francescana delle origini. La disarmante normalità delle scene, d’impronta fotografica mediata dai luminosi ed intensi cromatismi propri della cartellonistica cinematografica, di cui Marcelli è stato prolifico artefice, non sembra aver a che vedere con le tendenze dell’arte del tempo, il cui filone figurativo si colloca problematicamente in una dimensione condizionata dalle polarità delle maniere espressionista, astratta e informale, come si coglie nella grande Crocifissione in terracotta di Alfio Castelli nel cuore dell’alta facciata a capanna, che ne condivide un’ispirazione romanica in chiave modernistica. Piuttosto, è la dimensione d’arte popolare del cinema neorealista che si avverte nella “presa diretta” delle silenziose scene di una coinvolgente sacra rappresentazione, tutt’altro che idealizzata da convenzioni retoriche. Semmai, l’armonia degli assetti compositivi inscritti nel quadrato rivela corrispondenze con modelli iconografici antichi e rinascimentali, candidamente assimilati, dai rilievi delle metope templari arcaiche e classiche alle xilografie devozionali quattrocentesche: e ciò accosta suggestivamente i pittorici ‘fotogrammi’ di Marcelli a quanto espresso, di lì a poco, nelle intense immagini filmiche dell’anticonvenzionale Vangelo secondo Matteo di Pasolini. Questa semplicità si muove sulla via di un’arte sacra non appesantita e tradita da vani intellettualismi e tecnicismi, ma ingenua, chiara ed “accessibile a tutti”, quale predicò il Tolstoj del clamoroso saggio novatore Che cosa è l’arte (Mosca 1898): idea di “arte dell’avvenire” capace di comunicare immediatamente “sentimenti elementari che riuniscono tutti gli uomini”, parlando un linguaggio di “genere universale”. Arte senz’arte, questa: realtà autenticamente sentita, comunicata, partecipata.
(dicembre 2009)
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